Psicostorie
Psicoradio incrocia tante storie e in questa puntata ne presenta quattro significative ed emblematiche
🔊 Puntata 835
C’è I., che giovanissima inizia a sentire voci che le parlano, ma intorno non c’è nessuno; e allora chiede aiuto al padre. C’è B., che la cosa che ricorda vividamente del suo paese natio è la fame che ha patito. A. invece ha trovato nel rap il modo di elaborare il nero che vedeva intorno a sé. E poi ci sono le storie collettive, per esempio quella di una etnia matriarcale cinese che, caso unico al mondo, sembra non conoscere violenza sulle donne perché non concepisce il possesso in amore. In apertura, però, parliamo della grave situazione dei diritti umani, in particolare proprio di quelli delle donne, in Medio Oriente e nel mondo arabo. Vi proporremo una serie di poesie di donne arabe anche nelle prossime puntate per mantenere viva l’attenzione su questo tema.
Alberto “Il Belga” è un ascoltatore di Psicoradio. Tempo fa ci ha scritto che voleva raccontare come la musica sia stata importante nella sua vita e nell’affrontare la sua malattia. “Nei miei rap racconto come vivo l’insonnia, il disagio fisico e psicologico che ti dà la malattia” racconta il Belga ai microfoni di Psicoradio. “Prima consideravo la mia malattia come una condanna che riguardava solo me stesso; invece mi ha aiutato moltissimo viverla in comunità, con persone che avevano problemi anche più gravi dei miei, e li vivevano meglio”.
Poi c’è la storia di I, un’altra giovanissima ascoltatrice. “Un po’ di tempo fa ci ha chiamato: avrebbe voluto venire a parlare delle voci che, a 22 anni, hanno cominciato a tormentarla”, raccontano i redattori della radio della mente. Erano voci aggressive, insultanti e l’avevano portata a sentirsi sempre più sola. “Poi sono cambiate perché sono cambiata io, e ho imparato anche ad ascoltarle”, racconta I. Psicoradio le è servita per parlare di un tema che invece la spingeva a chiudersi in se stessa. “Sto imparando che non sono sola e ci sono tanti altri come me”. In redazione I. è venuta con il padre: “Io non mi vergogno mai di lei, perché è mia figlia. Mi rendo conto che viviamo in un mondo dove spesso più che sforzarsi di comprendere si cercano solo definizioni”.
“La cosa che ricordo meglio è la fame”. Fin dall’inizio la vita di B., una bimba scalza che prende a morsi la vita, è stata difficile: nata in Brasile, ha passato i primi sette anni in un orfanotrofio. Dopo altri tredici anni burrascosi è arrivata a Psicoradio. La sua storia è una storia di cambiamento: era arrabbiata con il mondo ma, dopo otto anni di redazione, quando è andata via aveva preso in mano la sua vita. una casa, un contratto di lavoro a tempo indeterminato e le spalle forti di chi ne ha passate tante e sa guadagnarsi il futuro.
C’è una piccola minoranza etnica, che è riuscita a realizzare qualcosa di straordinario. Sono i Moso, circa 40 mila persone fra uomini e donne che vivono ai piedi dell’Himalaya, in una società matrilineare: senza stupri, senza violenza e senza femminicidi. In questa società non esiste la violenza, perché si è sempre evitato di legare l’amore al possesso. Tra i Moso non esiste il matrimonio, e le relazioni d’amore e di sesso non concepiscono il concetto d’appartenenza: la gelosia è considerata un sentimento ridicolo e distruttivo. La redazione di Psicoradio aveva intervistato l’antropologa Francesca Rosati Freeman, che ha vissuto per un periodo nei villaggi Moso. A loro ha dedicato un documentario dal titolo “Nel nome della Madre”, che illustra come siano riusciti a creare una cultura senza violenza sulle donne e dove l’amore, senza possesso e matrimonio, è un sentimento puro, slegato da classe sociale e situazione economica.