L’albero fallico, ovvero: quando a essere folle è la “cura”
Una ascoltatrice di Psicoradio ci racconta una sua esperienza
Nel marzo del 2016 mi trovavo in una clinica. Un rehab per depressi, persone con disturbi alimentari, tossicodipendenti e poi un sottobosco di umanità varia che stava lì in qualità di “esaurita”, in stile ricca casalinga americana primi anni 90. Signore che si piazzavano in giardino, sgomitando per un angolo di sole, con un cartoncino riflettente sparato sul viso, una fascetta o una cuffia a tenere indietro i capelli, tutine aderenti di ogni taglia, fumando come turche con l’appuntamento fissato con l’estetista. Eh sì, perché in clinica, ovviamente a pagamento, potevi usufruire di estetista e parrucchiere. Stucchevole? Non avete ancora visto niente.
Io mi trovavo lì perché questa clinica dal nome fiorito pareva un fulgido esempio di sanità convenzionata, quindi non pagavo per sperimentare un posto che non fosse un reparto psichiatrico ospedaliero. “Proviamoci”, ci eravamo detti. Stavo molto male e non se ne usciva. Così mi ritrovai in questo luogo che si rivelò ogni giorno più terribile e di cui ho pochi ricordi perché ero talmente foderata di farmaci che passavo il mio tempo a dormire, ingrassare, a essere sgridata perché non facevo ginnastica e a svuotare il sacchetto rosa del cestino del cesso per infilarmelo in testa nella speranza di riuscire a stringere abbastanza.
Pochi ricordi, dicevo. Però. Però certe cose non si dimenticano. Ve ne racconto una fantastica. Mi assegnarono una psicologa e uno psichiatra. Entrai dallo psichiatra con un filo di speranza che venne reciso nei primi 5 minuti. Prima di qualsiasi domanda, prima di qualsiasi altro tipo di comunicazione, mi disse che era necessario che io disegnassi un albero. Mi porse un foglio bianco e ricordo che disegnai il tronco, i rami spogli, era un albero invernale, come li disegnava mia madre sui cartelloni di scuola per le stagioni. Lui lo guardò velocemente e disse: “Quest’albero ha una connotazione chiaramente fallica. Come prima cosa dobbiamo risolvere il problema della tua personalità dominante e manipolatoria”. Non ci potevo credere. Non stava succedendo davvero, giusto?
Indovinate la risposta. Credo sia stato uno dei momenti peggiori della mia vita anche se può sembrare quasi esilarante. Mi sono infuriata guadagnandomi da subito un posto nel raccoglitore “un calcio in culo e fuori di qui appena possibile”. Sono rimasta lì dentro dei MESI, ma alla fine il momento propizio è arrivato.
Agli incontri con la psicologa, seduta con le braccia penzoloni ripetevo la stessa cosa: voglio-solo-morire. Un bel giorno mi convocò la direttrice del mio piano e mi fece un cazziatone isterico. “Se ripeti un’altra volta che ti vuoi suicidare ti mando via da questa clinica. Nel mio reparto la gente non si suicida. Qui nessuno si suicida”. “Ma è la verità, io mi sento così, se vuole posso mentire, ma questa è la verità”. “Bene, allora raccogli le tue cose che chiamo un’ambulanza per portarti in psichiatria”. Ho ficcato le cose di due mesi e oltre in sacchetti della spazzatura gentilmente offerti dal personale e in men che non si dica ero su una barella in ambulanza diretta al solito reparto. In psichiatria sono stata 24 ore. “Come va?”, mi chiese il solito psichiatra a colloquio. “Bene, mi sento bene”. Mi dimise.
Poco dopo ero a Milano. Contro il parere di tutti ovviamente. E, a posteriori, fu la scelta migliore che potessi fare, ovviamente.
Sono passati circa quattro anni da questi avvenimenti, non venti. Forse sarebbe il caso di ricordarselo ogni tanto.
Alice Cavicchioli