PAROLE SBAGLIATE CON RADICI ANTICHE
IL 25 NOVEMBRE- GIORNATA NAZIONALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Piccolo elenco di errori, lapsus e stereotipi quando si parla di violenze sulle donne
di M. Cristina Lasagni
RAPTUS
Raptus di gelosia, raptus di follia… usati quando, per esempio, un uomo butta dalla finestra la fidanzata o la massacra di botte. Se si approfondisce un po’, si scoprirà che non è stato un evento improvviso ma l’esito di una escalation di violenza che non è stata intercettata e fermata prima. Ma c’è un altro motivo per cui in questi casi non è giusto usare il termine raptus: perché evoca l’ambito della psichiatria, e fa pensare che chi compie questi delitti sia sempre una persona con disturbi psichici. Non è così, lo dimostrano tutti i dati, ed è pericoloso creare o confermare questa convinzione.
Innanzitutto è sbagliata, e alimenta la paura nei confronti di chi soffre di un disturbo psichico. Poi, legare la violenza sulle donne all’ambito del disturbo mentale è pericoloso perché fa sì che gli uomini e le donne possano pensare “siccome io non ho una malattia, una diagnosi psichiatrica, sono temi che non mi riguardano, a me non può succedere”.
La presenza di un disturbo psichico o meno nel fidanzato o marito non costituisce un’assicurazione così come non lo sono l’istruzione o lo status sociale: uno dei primi centri in aiuto alle donne in Italia è stata fondata dalla moglie di un importante medico, che la maltrattava. I casi di violenza nella quasi totalità dei casi non sono frutto di un raptus improvviso, e la follia non c’entra – se non definiamo follia tutte le uccisioni in quanto tali, ma questo è un altro discorso.
AMORE CRIMINALE
Non si dovrebbe mai collegare la violenza con concetti come amore o passione: amore malato, troppo amore, amore criminale, delitto passionale.
Un esempio efficace è quello di una trasmissione della Rai, “Amore criminale” che già nel titolo compie un’associazione che è una contraddizione: l’amore è il contrario della violenza.
In quel programma ascoltiamo molte volte una condanna della violenza, ed è espressa solidarietà alle vittime. Però poi assieme a questi contenuti, troviamo anche parole e immagini che continuano ad essere frutto di stereotipi culturali molto difficili da combattere: l’idea che le violenze furono dettate dalla passione amorosa; la spiegazione delle violenze come effetto di un momento di perdita di controllo o di follia, il raptus, appunto. L’interpretazione di questa perdita di controllo o questa follia come innescati da qualche comportamento della vittima.
Si tratta di stereotipi basati su una cultura che attraversa, tutta la nostra società, donne e uomini, anche chi lavora nell’informazione, nella psicologia, nella legge…
DELITTO PASSIONALE
A questo punto bisognerebbe davvero chiedersi quale concetto di amore abbia chi scrive; d’altra parte la letteratura popolare, la musica, il cinema sono pieni di descrizioni dell’amore costituito da gelosi e comportamenti esageratamente possessivi.
E’ indicativo anche il fatto che solo nelle ultime pagine si accenna – ma non si approfondisce – il fatto che questi omicidi sono commessi da un genere sull’altro, dagli uomini sulle donne; è come se il tema del genere – e quindi della cultura – non c’entrasse molto con questi delitti. Invece, di nuovo, leggiamo che “Il delitto passionale ha come movente principale l’amore verso un’altra persona, caratterizzato da una passione e da una lunga serie di pensieri a volte accompagnati da una preparazione che potrebbe farlo sembrare premeditato “ e che l’amore è una passione che normalmente non porta ad uccidere “ma, quando diventa troppo intensa ed incontrollata, si trasforma in un vero e proprio assillo che può assumere connotati patologici”.
C’è un altro indizio del fatto che chi scrive non pensa che in questo tema della violenza sulle donne la cultura abbia un ruolo importante: il fatto che vengono usati autori che hanno scritto all’inizio del novecento, senza pensare che nelle questioni che riguardano il genere maschile e femminile il contesto sociale e culturale fosse molto diverso.
E così possiamo leggere: “Valenti sostiene che un delitto è costantemente determinato dall’odio, tranne che in un caso, quando si uccide la persona amata. Dal momento in cui lo sguardo si posa sulla vittima, fino all’uccisione, l’unico sentimento che trapela è l’amore. Un amore che è stato respinto, tradito o sciupato dai continui litigi ed incomprensioni, ma che si può continuare a controllare e conservare solo attraverso la sua morte” (Valenti, 1922).
Di nuovo, cosa significa “amore” in questo contesto? In realtà, è proprio rimanendo in ambito giuridico che possiamo renderci conto di come la cultura attuale abbia radici molto profonde.
STUPRO
La parola attuale “stupro” viene dal latino stuprum: violenza sessuale, stupro, qualunque relazione sessuale illecita, incesto. Ma ha anche un altro significato in senso figurato: disonore, onta, vergogna.
Lo stupro è un reato che, nella scelta del suo trattamento, ha risentito – e tuttora risente molto – di una componente culturale, ideologica. Nel diritto antico – romano – la violenza sessuale era concepita non tanto come un’aggressione alla donna che l’aveva subita, ma soprattutto come un affronto al suo onore, alla sua verginità o castità – e un affronto alla famiglia, al marito.
La violenza sessuale era dunque un delitto in cui il valore dell’onore metteva in secondo piano il principio dell’autonomia. In sostanza, più che delle offese fatte alle donne, il diritto si preoccupava degli oltraggi arrecati all’onore di quegli uomini, padri, mariti, fratelli, ecc., che delle donne erano considerati i titolari . Di conseguenza la donna che avesse la dubbia fama di essere “libera”, cioè non soggetta ad alcun maschio che esercitasse la tutela su di lei, e che potesse sentirsi offeso nel suo onore, non aveva diritto alle stesse protezioni di quella, appunto, soggetta.
Sempre nel diritto romano, perché lo stuprum potesse essere considerato violento, era necessario che la donna avesse opposto una resistenza fisica attiva e riconoscibile prima, durante e dopo la violenza; per esempio, avrebbe dovuto gridare talmente tanto forte da farsi sentire. E c’era anche chi sosteneva che lo stupro violento della prostituta non dovesse essere punito, o che al massimo ci si potesse limitare ad infliggere una pena più mite, perché non c’era nessun onore da tutelare. Questo sguardo al passato ci fa capire le radici del nostro presente.
La nostra cultura viene da qui, da questa cultura delle relazione tra uomini e donne. Ne sono derivate leggi che a fatica sono state corrette come la legge sul cosiddetto “delitto d’onore” per cui un uomo che scopriva in flagrante l’adulterio della moglie e l’uccideva poteva cavarsela con appena tre anni di condanna, perché si diceva che la sua mente era stata ottenebrata a causa della lesione del suo onore. Questa legge è stata cancellata solo nel 1981.Oppure la legge sulla violenza sessuale, che definiva lo stupro un delitto contro l’onore, e non contro la persona – la donna che l’aveva subito. Solo alla fine degli anni ’90, dopo molte lotte, questa norma è stata modificata, e oggi la violenza è definita un reato contro la persona che la subisce.
Il risultato di queste radici culturali lo si è potuto verificare in tantissimi processi per stupro: l’onere della prova spostato sulla vittima, che spesso viene sospettata di mentire; gli accusati che rivendicano il loro essere persone oneste, mentre i loro avvocati di difesa delegittimano la vittima con insinuazioni sul suo “onore”. Ma soprattutto, il disonore non è di chi compie il crimine ma di chi subisce: ricordiamo l’etimologia di stupro anche come “vergogna”.
E così capiamo meglio perché si sono visti tanti accusati (ed i loro avvocati) strafottenti nei tribunali, perché in tanti processi gli avvocati difensori indagavano (o dobbiamo scrivere al presente, indagano?) con morbosa, offensiva minuziosità la vita sessuale della vittima di stupro, come se una sua eventuale libertà – anche sessuale – fosse una attenuante alla violenza subita.
Ancora oggi si suppone che il numero di violenze e maltrattamenti non denunciati sia la maggioranza, soprattutto quando l’autore delle violenze è vicino alla vittima: marito, fidanzato, padre… Migliaia di violenze continuano a non essere denunciate anche per tutto questo, per un misto di paura e vergogna, paura del processo che si ha ragione di temere diventerà un giudizio sulla propria vita, e un senso confuso di vergogna, come se l’atto di violenza sporcasse chi lo subisce e non chi lo compie. E’ chiaro però che i cambiamenti in sede giuridica non sono sufficienti, perché a volte la cultura diffusa non sta al passo con l’evoluzione della legge.
E allora una degli ambiti che deve evolvere è quello della comunicazione, dei mass media, che devono assumersi molta responsabilità perchè hanno molto potere sull’opinione pubblica.
Innanzitutto, è necessario che i giornali, le televisioni, le radio, considerino i temi legati al genere come una questione importante che richiede un sapere: perché si possono fare tanti errori parlando di genere, ma per scrivere/parlare di calcio, o di economia, si richiede al (alla) giornalista una competenza specifica? I diritti delle donne – compreso il diritto a una vita libera dalla violenza maschile – devono essere affrontatati come si affronta un argomento specifico, difficile e importante, sul quale non possono improvvisare persone impreparate.