LE STORIE DI MORENA
La colomba e la cornacchia
La primavera, lieve e serena, aveva incominciato a danzare sul seme bianco e freddo con cui l’inverno aveva ricoperto la terra.
Ad ogni sua piroetta esso svaniva scoprendo il ventre nero e molle dell’antica Madre, pronta, di già, a partorire vita nuova. Il cielo, limpido, come l’occhio d’un neonato, lo si poteva respirare.
Molte persone, sopratutto i vecchi, alzavano il volto speranzosi verso il creato e respiravano a pieni polmoni quell’azzurro pulsante, nel tentativo di inalare più vita possibile. Davanti alla piccola parrocchia del paese si era già radunata molta gente.
C’era chi aveva già cominciato a mangiare le crescentine calde, farcite d’ogni salume, che le brave massaie servivano allo stand gastronomico, chi a tracannare bicchieri stracolmi di vino sanguigno, chi a comprare i biglietti della lotteria, indetta dal parroco stesso, che, visto la Pasqua in arrivo e che il fratello era proprietario di un numerose gregge, aveva pensato bene di dare come primo premio uno degli agnellini che ancora riposavano ignari della loro sorte crudele, nei ventri caldi delle madri.
Davanti alla porta spalancate della chiesa, da cui usciva l’odore pungente dell’incenso e della cera fusa, il vecchio prete ringraziava le sue pecorelle fedeli, che si erano radunate ad ascoltarlo, sottolineando che gli introiti di quella festa sarebbero stati usati per la ristrutturazione della casa del Signore e della statua della Madonnina, a cui tutti loro,e a quel punto giunse le mani, come per pregare, si erano rivolti, almeno una volta nella vita, per chiedere una grazia.
Ora era venuto il momento in cui erano loro a dovere qualcosa a Lei e la partecipazione di tanta gente lo commuoveva e gli confermava di quanto la Santissima Vergine avesse fatto per tutti e di come tutti l’amassero.
La statua era situata esternamente, sul lato sinistro dell’entrata della chiesa, posta su di un piedistallo di marmo, su cui erano incisi, in latino, i primi versi di una preghiera Mariana. Dolcemente austera, mirava quei volti che ben conosceva, ascoltava quelle voci note, di cui aveva sentito le preghiere e le suppliche, che di tanto in tanto erano sfociate in bestemmie. Ma in fondo la bestemmia cosa non è se non una preghiera rabbiosa, rivolta ad un genitore che non ti ascolta? E lei lo sapeva e con le mani alzate pareva richiamare ogni anima, promettendo amore incondizionato.
In quell’istante, mentre Don Luigi invitava tutti i partecipanti a comprare altri biglietti della lotteria e a gustare senza sensi di colpa,le focacce e le torte preparate con amore dalle pie donne – Perché non si fa peccato di gola a mangiare per una buona causa- arrivò lei.
Un tardivo fiocco di neve, la materializzazione d’un pensiero d’amore, e tutti si fermarono, rimanendo come statue, e l’aria, fatta dell’alito dell’inverno morente e dei sospiri della primavera si solidificò e quel paesaggio apparve come racchiuso in una sfera di cristallo. Il vociare degli adulti, le risa dei bambini, la parola d’ogni creatura si ammutolirono davanti all’apparizione della pace.
La colombella frullò tre volte sui volti incantati dei paesani poi andò a posarsi sulla testolina della Vergine.
Fissò quell’ammasso di corpi coi suoi occhietti lucidi e neri, che colpivano il cuore di chi li incrociava, così in contrasto con il candore immacolato di quelle piume., come se chi la creò volle macchiare, quel simbolo d’innocenza, con due gocce di peccato, per ricordarci che nessuno è innocente.
“OH!” gridarono i bambini
“Guarda che bella!-facevano loro notare i genitori e i nonni- si è posata proprio sul capino della Madonnina. Che carina!”
“Avrà fame- intervenne una ragazza avvinghiata ad un giovanotto sorridente.
“Si-annuì una signora, lanciando al suolo un pezzetto di cibo, e tutti la imitarono.
L’animaletto planò delicatamente su quelle offerte, si posò al suolo e incominciò a beccare avidamente.
“Gradisce- sentenziò una nonna, mostrando un sorriso sdentato.
Allora ricominciò il lancio delle offerte, con pezzi di cibo sempre più consistenti, come se si fosse aperta una tacita gara di altruismo.
E la colombina gradiva, eccome. Camminava tra le gambe delle persone senza timore, sicura che nessuno l’avrebbe mai schernita o cacciata, proprio come chi è consapevole di indossare un abito e ricoprire un ruolo così importanti da essere inattaccabile. Dall’alto ramo di un pino, accanto ad un nido di cuoricini implumi,che pigolavano , una cornacchia guardava interessata la scena. Aveva fame e fame avevano i suoi bambini e tutto quel ben di Dio l’allettava e la chiamava con la voce della sopravvivenza. Trovò il coraggio, sicura che il cibo fosse per chiunque, e volò verso la chiesetta. Arrivò nel bel mezzo della festa ,nera come il demonio, con la sua voce stonata e sgraziata si annunciò, inconsapevole che il suo abito e il suo ruolo non l’avrebbero protetta, anzi…
Si posò al suolo, e incominciò a beccare con la fretta della madre che raccoglie il cibo da portare ai suoi figli affamati. Ma le persone non videro in lei l’amore materno, ma il brutto, l’incarnazione del male, del cattivo presagio. Poi, quando la colomba, vedendo il nero uccellaccio, fuggì impaurita, rifugiandosi sul capo della Madonnina, scattò l’ira “dell’esercito dei giusti” i quali, con un coro di indignazioni, incominciarono a scacciare la “maledetta” con urla e calci, prontamente schivati dall’uccello, che con piccoli voli si spostava mesta per ritornare a beccare qualche briciola.
“ Ah, non vuoi proprio capire!”- Sibilò il prete con un ghigno che di compassionevole aveva davvero poco, poi raccolse una grossa pietra da terra e la scagliò contro il nero invasore.
La colpì, sono un grande cacciatore, si vantò, si vede, gli fece eco un coro. La cornacchia cercò di scappare volando, ma l’ala colpita le doleva e non riuscì a spiccare il volo, l’arto era rotto, e ciondolava allo stesso modo in cui ciondolano dai muri i manufesti semi staccati, che il vento, prima o poi getterà al suolo.
Fu un attimo, e la goffaggine di quell’animale brutto e sofferente risvegliò il sadismo che respira nel lato più oscuro d’ogni essere umano e per lei iniziò il calvario. Cominciò la lapidazione, tutti cercavano pietre da scagliarle addosso, bimbi, vecchi, giovani genitori, tutti, nessuno escluso e lei, poverina, gridava il suo tormento per come sapeva e poteva, gracchiando, e più il dolore aumentava e più la sua voce diveniva antipatica, stridula fastidiosa, e tutti incominciarono a mirare la testina, per ammazzarla e farla tacere per sempre.
Alcuni colpi avevano aperto sul suo corpicino profonde ferite che sanguinavano copiosamente. Si trascinava, cumulo di piume e sangue, il suolo fangoso ostacolava il suo fuggire. Di tanto in tanto alzava gli occhietti attoniti, in cerca di un perché a tutta quella crudeltà.
Ad un tratto sentì forte e chiaro il richiamo dei suoi piccoli affamati, e, con il coraggio di cui solo una madre può essere capace, si rialzò a fatica sulle due zampette e cercò di fuggire verso il pino su cui era nascosto il suo nido, come l’avrebbe raggiunto non lo sapeva, non riusciva più a volare, però doveva avvicinarsi il più possibile alle sue creature.
Gracchiava forte, disperata, nessuno capiva che rispondeva ai suoi figli anzi, l’intolleranza verso di lei crebbe, “Fa male agli orecchi, quel brutto uccellaccio. Ora basta, crepa!”Il giovane si liberò dalle braccia della sua fidanzata, raccolse da terra una tavola di legno dove all’estremità fiorivano chiodi lunghi e arrugginiti e incominciò a rincorrere quel grumo di sangue indifeso e una volta raggiunto lo colpì ferocemente.
Il suo viso era storpiato dal piacere, “ Neanche facendo l’amore con Isabella-pensò-ho mai provato una sensazione simile-.
E intanto picchiava, picchiava, sordo ai pianti dell’animale che a poco a poco si affievolivano, fino a che il colpo di grazia, uno dei chiodi del legno andò a conficcarsi direttamente nel piccolo cranio ormai sfondato, la zittì. Era morta, l’aveva ammazzata, aveva raggiunto l’orgasmo più intenso della sua vita, aveva assaporato il potere di uccidere, uccidere una creatura spiacevole,brutta, nera, portatrice di jella, si sentiva bene, si sentiva giusto. Quando tornò verso il gruppo lo accolse l’abbraccio profumato di Isabella e l’applauso caldo dei suoi paesani. Era un eroe.
La colombella, che fino ad allora era stata a guardare la scena, appollaiata, al sicuro, sulla testa della Signora, scese con la leggerezza di un angelo e ricominciò ad assaggiare un po questo e un po quello. In fondo non aveva fame, ovunque andasse c’era sempre qualcuno pronto a sfamarla. Intanto, Marta la matta, che si era nascosta dietro al sempreverde, per paura che quelle pietre arrivassero anche a lei, come era spesso successo, si trascinò goffamente verso quel corpicino straziato.
“Poverina-piangeva la giovane donna, raccogliendo l’animale con una pezza bianca- poverina, che facevi di male? Io li ho sentiti i tuoi bimbi chiamarti, e ore moriranno anche loro, tu volevi solo sfamarli. Quanto sangue!…Che colpa ne abbiamo se siamo nate brutte?…Non è colpa tua se non sei nata colomba, ne è colpa mia se non sono graziosa come l’Isabella, se sento voci che loro non sentono…ma per quelli- guardò con disprezzo la folla festosa davanti alla chiesetta- eliminare chi è come noi è cosa buona e giusta…Bastardi!.. Poverina, sorella mia!”…
Singhiozzando si riavvicinò al pino, dai cui rami gli implumi avevano smesso di chiamare la madre, e la seppellì, scavando nel suolo umido, con le dita tozze, una piccola fossa, così che quell’esserino potesse trovare un suo angolo di pace nel ventre della Madre di tutti.“Riposa dove riposano i tuoi bimbi-sussurrò, poi tremante tornò a celarsi dietro al grande tronco, la prossima ad essere lapidata potrei essere io, pensò.
Intanto, saltellando tra una briciola e l’altra, la colombina si era macchiata il petto col sangue della cornacchia , infastidita da quel liquido, tornò a posarsi sul capo della Vergine, per pulirsi. Mentre si puliva qualche goccia di quel sangue misto a fanghiglia cadde sul volto di Maria, scivolò lungo gli occhi cerulei e le rigò le gote: la Madonnina piangeva. Intanto i fedeli badavano a mangiare, bere, e a ridere di quel brutto uccellaccio nero a cui avevano dato una lezione.
“Cra, cra!” la imitavano i bambini, sotto gli sguardi felici e divertiti degli adulti.
Don Luigi , un po’ brillo gridava, invitandoli a comprare i biglietti della sua lotteria.” Uno degli agnellini sarà nel vostro piatto a Pasqua, signori, è un gran primo premio!…Giocate! Giocate! La chiesa ha bisogno del vostro aiuto, Dio ve ne renderà merito!”
Il pomeriggio ormai lasciava posto alla sera, l’aria era fredda, e nel cielo limpido il sole si era liquefatto inondandolo di sangue.
A Marta la matta, da dietro all’albero dove si era accovacciata, parve che il sangue del cielo si unisse a quello lasciato in terra dalla povera bestiola, così che non riusciva più a distinguere il paradiso dall’inferno.
Alibelle
Tra il nulla e qualcosa di piu’.
Era la farfalla più bella.
Ali così non se n’erano mai viste.
Seta morbida, rosa come l’aurora, su cui la notte aveva pianto due lacrime.
Frequentava solo giardini, lei!
Giardini ben curati.
Quelli dove “è vietato calpestare” e “I cani vanno tenuti al guinzaglio”.
Dove il suolo è un tappeto soffice, odoroso e policromatico.
Dove pure a me doleva entrare, per la paura di spettinare quella miriade di fili fragili e terribilmente splendidi
Era la farfalla più bella e lo sapeva.
Regina perfetta di un regno perfetto.
I fiori la chiamavano , con le loro voci vibranti di desiderio
“Vieni, Alibelle, abbracciami forte e succhia tutto il mio amore…è tutto per te!”
“ No, vieni da me! Io sono più dolce…non te ne pentirai”.
E lei volava felice, senza fretta.
Lei era liberamente di tutti e tutti lo sapevano.
Chiedeva solo cibo e attenzioni amorevoli in cambio.
Lei era sempre ebbra d’amore e di vanità.
I fiori godevano nel farsi dissanguare da lei, tutto l’amore, e dopo non ce n’era per nessun’altra.
E fu così che anche LUI se ne innamorò…
La ammirava nascosto sotto una grande foglia o tra i sassi.
Sospirava ogni volta gli passava accanto, allungando le lunghe zampe verso di lei.
Lei era il suo giovane pensiero di luce, e lui non poteva più farne a meno…
Un giorno decise che l’avrebbe avuta tutta per se.
Per un’ intera notte lo sentii lavorare, sbuffare, ansimare.
Era vecchio e tutto quel lavoro lo affaticava molto.
Poi, alle prime luci del giorno corse a nascondersi sotto la sua grande foglia ed immobile attese…
Alibelle incominciò molto presto il suo frullare amoroso e civettuolo, danzava leggera, ed io la sostenevo, con le mie dita invisibili, e sentivo il suo cuoricino battere forte…Oh, Alibelle, delicata creatura!
Era proprio nella tua forte fragilità la tua disarmante bellezza!
Ma i fiori percepivano qualcosa di inquietante in mezzo a loro e cercavano di metterla in guardia
“ Alibelle, fai attenzione, c’è qualcosa che non va. Stai lontana da noi, oggi”
E le altre farfalle bisbigliavano maligne
“Lasciate che venga tra voi. Noi non verremo al suo posto, non siamo le vostre ruote di scorta!
Lasciate che il diavolo se la porti, quella sgualdrina vanesia!”
Ma lei non udiva nessuno, presa dalla sua frenesia di cercare l’amore.
L’amore che colmava quel vuoto devastante che le bruciava l’anima, da quando era piccina.
E si sa, quando l’unico modo per spegnere il fuoco del vuoto che ti devasta lo trovi nelle attenzioni amorose che gli altri ti irrorano continuamente, grazie alla tua riconosciuta bellezza, non è facile staccarsene.
Così Alibelle rimase a svolazzare in cerca di pace in quel rassicurante giardino.
Fino a che non udì quella voce.
Voce buona, profonda, cullava il suo cuoricino ansioso e triste.
Suo padre l’aveva abbracciata forte, per lunghe notti, nel buio della sua stanzetta, accarezzando il suo corpicino al suono di quella voce.
Quanto aveva amato suo padre!
Ed ora ecco apparire di nuovo il richiamo di quell’amore.
Doveva seguirlo.
Doveva volare tra le sue braccia.
E volò verso di esso.
Tra le braccia del suo destino.
Ma il suo destino, quel giorno, aveva braccia vischiose e sottili che la intrappolarono.
“Dove sono finita!-Gridò- Aiuto! Vi prego aiutatemi!”
Piangeva Alibelle e si dibatteva disperata.
Come risposta ebbe solo le risatine delle altre farfalle
“Ben ti sta, sgualdrina!”
Seguite dai commenti rassegnati dei fiori
“Era da dire che sarebbe finita male. Non ascoltava nessuno. Lei era senza padroni.”
“Se fosse rimasta con me, ora non si troverebbe così…io l’avrei amata davvero…”
Queste furono le conclusioni che rasserenarono e riappacificarono il giardino.
In fondo quello che le era accaduto era soltanto una conseguenza normale delle sue azioni.
“Ma che fiore sei? Lasciami, ti prego!-
“ E’ un “fiore del male” ti risponderebbe un famoso poeta”E rise.
Il “fiore del male” incominciò a vibrare.
Qualcuno riusciva a camminarvici sopra…ma chi?, pensò Alibelle.
Poi la voce divenne corpo e dalle sue spalle apparve ai suoi occhi e…
“No!… Chi sei?… Cosa vuoi da me? “Si divincolava disperata e più cercava di liberarsi e più si sentiva prigioniera.
“Sono il ragno nero, signore del giardino…
OH, mia regina, dinnanzi a te mi inchino…”E piegò i lunghi zamponi anteriori e si inchinò per davvero.
Lei singhiozzò-” Vuoi mangiarmi?”
“ No…Oh, no!..Non potrei mai divorare il mio più bel pensiero…sei così luminosa…ali di seta rosa come l’aurora, su cui la notte pianse due lacrime…
…Si dice che La notte si innamorò perdutamente del sole- iniziò a raccontare, con tono sinuoso e paterno, il vecchio ragno- ma esso la sfuggiva.
Lei, allora decise di strapparsi due brandelli dal cuore.
Mentre li strappava piangeva e due di quelle lacrime macchiarono quei rosei frammenti. Li lasciò, nelle mani dell’alba, chiedendole di consegnarli al sole, da parte sua, perché il sole si ricordasse per sempre di quanto la notte lo amava. Ma il sole, schiacciato dal senso di colpa volle dare vita a quel dono e ne fece due ali, così che l’amore che aveva negato alla notte potesse liberamente volare, senza confini di tempo e di spazio…”
Lei lo ascoltò incantata
“Me lo diceva sempre il mio papà. Mi sussurrava questa commovente storia mentre mi coccolava,
stringendo forte la mia testolina a sè….il suo nettare era dolcissimo, il più dolce che io abbia mai bevuto!”
“ Alibelle, piccola mia- sussurrò l’aracnide, avvicinandosi lentamente a lei-bella, bella creatura-
e con brutale dolcezza l’abbracciò.
“ Lasciami, mostro!- Gridò la poverina, cercando di liberarsi da quella morsa pelosa.
Ma più la stringeva e più lei indeboliva l’opposizione.
Lo sentiva fremere dalla voglia di averla.
Sentiva che la desiderava più della vita stessa.
Questa consapevolezza la inebriava.
Si sentiva amata.
E il sentirsi amata spegneva in lei il vuoto che le bruciava l’anima.
Allora si lasciò domare, piccola ribelle in cerca di padroni.
La sua bocca scivolò piano, seguendo una pulsione naturale, e ad un tratto il grosso ragno, ritto sulle zampe posteriori, lanciò un gemito di piacere.
Li ricordo così.
Due figure di un quadro angosciante.
La bella, giovanissima farfalla mentre succhia l’amore del vecchio ragno nero.
Entrambi scossi da ritmici movimenti, come in una sensuale, macabra danza, danzata sulla ragnatela della vita.
E si amarono per lungo tempo.
All’ombra del giorno, alla luce della notte.
Poi…
“Lasciami- sussurrò Alibelle, spossata- Ora basta, ti prego…io devo andare…devo nutrirmi, devo volare. La mia vita è tra il cielo e la terra…Liberami, amore mio, ti prego, liberami!”
“Liberarti!?…Oh, no! Sei la mia vita! Se ti liberassi voleresti via da me ed io come farei?”
“Se mi ami liberami da questi fili che mi tengono prigioniera…tornerò da te, te lo prometto!”
“No, lo dici per affinché io ti liberi…ma io non ci casco!…”
“ Io…io t’amo, t’amo come ho amato mio padre!…Amo i nostri amari amplessi…io t’amo come amo il mio dolore!…E tu, m’ami?”
“Oh, si, certo che t’amo! Sei la mia vita !Non posso rischiare di perderti, capisci?”
“ E tu capisci che morirò senza cibo, ne cielo, ne terra, e ugualmente mi perderai?”
Il vecchio oscuro ci pensò un attimo e decise.
“Va bene, se devo lasciarti libera perché tu viva, lo farò, ma ad una condizione…ti strapperò le ali…”
“No!-Gridò sbarrando gli occhioni verdi- Lascia che io muoia, allora!…Non farmi questo, se m’ami, non farmi questo!”
“ Non capisci, è proprio perché t’amo che lo faccio…Non credere che io non soffra quanto te, di questa decisione. E’ come se strappassi carne dal mio corpo, credimi…ma è per il tuo bene…Se starai vicino a me sarai protetta dalle brutture della vita, io sarò la tua unica gioia!…”
Scuoteva la testina, gridava, con la voce rotta dai singhiozzi
“NO!NO!NO!!!”
Quel grido disperato mi accompagna ancora nella voce delle bianche bufere invernali.
Ma il suo nero amante le si avvicinò e con le forti mandibole le strappò prima un’ala e poi l’altra.
Alibelle svenne.
Un liquido bruno sgorgò copioso dal suo corpicino, ormai ridotto uno scheletro.
Si ridestò poco dopo, svegliata da un tormento profondo.
Aprì gli occhioni e vide il suo amore che con le due zampe anteriori, entrava in uno dei due profondi squarci, per attingere sangue con cui poi si affrettava a scrivere, su una delle ali che le aveva strappato.
“Sto scrivendo una poesia, è dedicata a te. E’ il tuo ritratto disegnato con le parole…dopotutto io sono un poeta, non un pittore…Ti ho liberato i piedini dai fili della mia ragnatela. Ora puoi camminare. Vai verso i fiori, nutriti, passeggia, ma ricorda…sulla terra io posso raggiungerti ovunque, quindi torna prima di sera o ti verrò a prendere e ti strapperò anche le zampe!”
Alibelle fissava il vuoto, non aveva neanche più la forza di piangere.
Le antennine piegate ai lati della testolina.
Rivedeva suo padre, il buio di quella stanzetta, “ Il lettino è troppo piccolo per me, vieni qui, su questo panno, staremo più comodi”…E lei gli si avvicinava timidamente, piena d’amore e di fiducia
E i loro amplessi, quel nettare dolce, dolce e poi i ricatti “Non dire nulla di quello che facciamo qui dentro! E’ un nostro segreto…altrimenti giuro che ti stacco le ali e poi ti abbandono!…E se sarò costretto a fare questo, anch’io morirò, perche tu sei la mia vita, Alibelle…”
E lei non aveva mai detto nulla, neanche quando il babbo era morto.
Non voleva perdere suo padre.
Sussurrò – “Non mi muoverò da qui, morirò di fame…”
“ No!…Tu devi vivere, sei la mia vita!”
“ Se sono la tua vita, allora, voglio morire…”
“ Non posso lasciarti morire così….”
Le si avvicinò, con l’enorme bocca spalancata, schiacciò quel corpicino col suo vecchio corpo pesante e solo allora Alibelle capì.
La stava divorando.
Sentì il suo amante succhiarle avidamente il cuore, i polmoni, tutto ciò che le apparteneva, che era parte di lei..
Come prima aveva fatto suo padre..
Poi, il ragno nero, sazio, se ne tornò a nascondersi sotto la grande foglia, in attesa di qualche altra bella, giovane farfalla, assetata d’amore.
Ed io che avevo visto tutto, non potei trattenermi nel gridare il mio dolore.
E quando grido io, la terra e il cielo gridano con me.
Raccolsi il corpicino svuotato di Alibelle e le sue alucce e la portai via da li.
E’ tutt’ora tra le mie braccia, non ho cuore di lasciarla al suolo, in balìa delle voraci formiche..
Su una delle sue ali, il ragno ne scrisse il ritratto
“Sei un’anima di carne,
con una lacrima di sorriso sul cuore,
strisci, volando, in un cielo d’inchiostro
alla ricerca della terra dell’oblio.
Eternamente sospesa
tra il nulla e qualcosa di più”…
…Solo due persone erano riuscite a leggere l’anima sanguinante di Alibelle: suo padre ed il ragno nero.
Le narici del cuore
L’odore di Tolè
Scrivo quello di cui mi parla la vita. Per questo, quando racconto la mia infanzia non posso far altro che imbrattare fogli bianchi di lacrime d’inchiostro. Ma, quando la necessità di respirare un po’ d’azzurro diventa vitale, io so cosa fare. Chiudo gli orecchi e gli occhi del cuore e attivo le sue narici, e ad un tratto ritorna quell’odore.
L’odore della pace, l’odore dell’infanzia vissuta, l’odore di Tolè.
Sa di legna che arde dentro una vecchia stufa di ghisa, di calda crostata alla mostarda, di arance rosse come sangue, di vento freddo che schiaffeggia i volti e sgarbato bussa a porte e finestre, di neve annunciata nei silenzi rumorosi di inverni indimenticabili,di castagni nudi e arrabbiati che scricchiolano le loro bestemmie al cielo… e di lei, di nonna Enrica. Odorava d’antico e sapone alla lavanda.
Madre di mio padre e di altri quattro figli, la nonna dagli occhi color di notte profonda, e dai lunghi capelli corvini, che di giorno portava raccolti sotto un fazzoletto variopinto, era una strega, la strega del paese.
Aveva la terza elementare, ma sapeva leggere e scrivere discretamente. Merito del buon cuore della figlia del dottor Dondarini,, da cui andò per serva all’età di otto anni. La donna, maestra del paese, aveva insegnato alla nonna quello che che” tutti dovrebbero imparare. Leggere e scrivere sono le basi della libertà.”
Fu il primo insegnamento che la generosa signorina le impartì. Divenne il mantra con cui la nonna scandì la sua e le nostre esistenze..
Le mie sorelline ed io trascorrevamo tutto l’inverno con lei, fino a quando la scuola non entrò nelle nostre vite e fummo costrette a diminuire i giorni in cui eravamo orfane felici di genitori viventi e salve dalle violenze di nostra madre. Venivano anche dai paesi vicini a chiedere aiuto All’Andrìca, così chiamavano in dialetto la nonna. La pregavano di scacciare il malocchio, che la vicina o la parente invidiosa aveva loro gettato addosso, o di farli parlare con un loro caro che la morte si era portata via.
E lei, L’Andrìca, silenziosa e raccolta ascoltava tutti, accontentava tutti, aveva per tutti una buona parola. Non voleva soldi, non ci si fa pagare le buone azioni,ripeteva a coloro le offrivano danaro. Allora questi ritornavano con doni vari: uova, dolci, formaggi e quando portavano conigli o galline, questi erano già ammazzati e puliti.
Perché tutti sapevano che L’Andrìca non era mai riuscita ad uccidere un animale, nemmeno in gioventù,nei momenti di fame più nera .Come faccio ad ammazzare una creatura che mi guarda-si giustificava, preferendo cucinare la solita polenta di castagne. La nonna possedeva vecchi tarocchi, li aveva avvolti in una stoffa di seta rossa, protetti da un santino della Madonnina di Lourdes, e da qualche grano di sale.
Quelle carte ingiallirono col trascorrere del futuro che, attraverso esse rivelava le sue sorprese.
Per essere sicura che una persona era vittima del malocchio, la nonna, metteva in una tazza colma d’acqua di fonte tre gocce di olio d’oliva, se le gocce non si univano tra loro formando una sola macchia oleosa, voleva dire che il malcapitato era stato colpito dai proiettili dell’invidia, allora si procedeva col rituale di purificazione. Si faceva sedere “l’ammorbato” accanto alla stufa, il fuoco purifica– diceva la nonna, gli metteva al collo un vecchio rosario di legno, con le mani nodose gli segnava sul ventre, sul cuore e sulla fronte la croce di Sant’Andrea e incominciava a sussurrare la sua litania incomprensibile.
-e’ la mia preghiera di protezione-rispondeva ferma a chi le domandava che cosa dicesse-devo capirla io , Dio e la Madonna- e concludeva facendosi il segno della croce.
L’unica cosa certa di tutto quel suo enigmatico teatro era che gli assistiti dopo stavano bene. Se accusavano mal di testa all’arrivo, se ne andavano senza dolore. Ricordo, per fino, che chi arrivava con brividi di febbre faceva ritorno a casa fresco come una rosa! Le mie sorelline durante i riti venivano allontanate. La nonna le mandava a giocare dalla zia Gigia, la figlia più anziana, avuta da un uomo di cui nessuno seppe mai l’identità.
Io potevo restare.
Sempre, durante la lettura delle carte e i rituali, sentivo un formicolio pervadermi la parte sinistra del corpo, sopratutto la mano. Quando chiesi spiegazioni alla nonna mi rassicurò che era normale,è lo Spirito che ti parla, sorrideva orgogliosa. Molto più tardi, quando iniziai i miei studi sull’esoterismo mi fu spiegato che i sensitivi spesso hanno come canale per l’ Energia, il lato superiore sinistro del corpo, la parte del cuore.
La nonna capì, anzi ne ebbe la certezza, che io ero l’erede alla quale tramandare oralmente l’antico sapere, quando io, ancora molto piccola le confessai di avere udito la voce di un vecchio castagno, che abitava i nostri boschi. Io e la mia gemellina, amavamo profondamente “il gigante buono con la pancia aperta”, come chiamavamo il grande castagno dal tronco cavo, dentro cui ci nascondevamo per giocare al “mondo magico”.
Ci sembrava lontanissimo da casa, e noi cucciole eravamo felici dell’autonomia conquistata. Senza adulti che ci tenevano la manina, potevamo esplorare i confini della terra. In realtà il sentiero che portava al castagno era di fronte a casa e l’albero, che stava sul margine del bosco, lo si poteva scorgere dalla finestra della cucina.
Anche questo devo alla nonna Enrica, il fatto di averci spinte, senza mai farci sentire sole, a sperimentare la libertà, insegnandoci quanto è importante e di come più si è liberi e più si deve essere responsabili di se stessi e degli altri.
Potevamo avere cinque anni il giorno in cui il mondo magico mi spalancò per davvero le sue porte. Aveva iniziato a nevicare, e Manola temendo che la neve coprisse le nostre impronte che, come ci aveva insegnato la nonna, erano la nostra certezza di riuscire a ritrovare la strada del ritorno, non mi seguì fino al castagno, preferendo tornare a casa. Io proseguii lo stesso. Amavo già violare le regole, la neve e l’inverno…
…Arrivai al gigante di legno, che mi attendeva con la sua aria di papà buono e svelta mi infilai nel suo ventre.
Ricordo di avere udito, all’improvviso, una voce che veniva da fuori, tanto che pensai ci fosse un uomo davanti all’albero e mi spaventai. Mi accovacciai nel tentativo di sparire, ma quella voce continuò. Mi disse di non avere paura, che era la voce dell’albero.
Era calda e rassicurante.
Più l’ascoltavo più l’odore del legno e della terra bagnati mi inebriavano l’anima, fino a confondersi con l’odore di legna che arde, di calda crostata alla mostarda, di sapone alla lavanda…ad un tratto mi parve di ascoltare col naso ed annusare col cuore. So che mi girò la testa e corsi a casa. La nonna era sulla soglia a braccia conserte, avvolta nel suo scialle di lana nera.
Mi accolse abbracciandomi –Entra, c’è la torta che ti piace e il latte sul fuoco. Entra che nevica!-
Entrai e le mie sorelline mi accolsero rimproverandomi che avevano avuto paura per me –Non è successo nulla-intervenne la nonna- mangiate la torta che è buona così diventate buone anche voi.-
La pregai di seguirmi in camera, perché mi aiutasse a liberarmi dagli abiti gelidi. Quando fummo nella stanza l’abbracciai stretta, le arrivavo alle ginocchia, mi avvinghiai alla sua lunga gonna di lana e la respirai. Inalai la sua essenza antica. Ebbi la sensazione che fossimo un unico corpo.
Le raccontai che il castagno mi aveva parlato.
Sorrise –Tutti ci parlano se li ascoltiamo-
–Non dirlo alla mamma…lo sai che si arrabbia sempre…poi picchia Manola…-
Per la mamma tutto diventava una scusa per far violenza alla mia gemellina, sulla quale sfogava tutto il suo odio per le femmine della terra.
-Non preoccuparti, è il nostro segreto…-
Morì a novantotto anni portandolo con sé.
Le confessai, successivamente che quella voce si era trasformata in un profumo, il profumo di Tolè.
–E’ normale. Il cuore ha occhi, orecchie e narici- e sul mio petto, con un dito, parve disegnarli.
Da quel giorno la nonna Enrica mi parlò spesso di un mondo dove tutto si unisce, facendomi capire che sono le forme con cui ci manifestiamo su questa terra che ci fanno apparire diversi gli uni dagli altri, ma in realtà siamo un tutt’uno. Mi iniziò all’arte dei tarocchi e mi insegnò come scacciare le energie negative, più comunemente dette malocchio. Io scrissi una preghiera, come lei fece prima di me, e sua madre prima di lei, con cui proteggermi durante il rituale di purificazione. Ma l’insegnamento più importante della nonna fu che nel nostro petto ci sono occhi, orecchi e narici ,come se in noi esistesse un secondo volto nascosto.
A distanza di tanto tempo, ancora adesso, quando voglio pensare a episodi sereni della mia fanciullezza, chiudo gli occhi del cuore, che hanno visto cose terribili, chiudo i suoi orecchi, che hanno udito parole dolorose, e attivo le sue narici.
D’un tratto il profumo della legna che arde, della crostata alla mostarda, del sapone alla lavanda, della terra e del legno bagnati,si fondono con l’odore gelido della neve più silenziosa e bianca che io abbia mai visto… allora ritornano, come boccata d’azzurro puro, quei brandelli d’infanzia vissuta, quando le mie sorelline ed io pensavamo che anche per noi potesse esistere l’Amore…e il mio cuore torna a respirare l’odore della pace, l’odore di Tolè.
La lingua degli ignoranti
“Dio aià magnè i fasùl…sant mò com al scurazza!..”
Poi si faceva il segno della croce e rideva.
Ed io con lui.
Non riuscivo a trattenermi, quella battuta mi divertiva un sacco.
Quando a primavera i temporali facevano tremare Tolè coi loro peti sinistri, Angiolino la ripeteva circa tre o quattro volte al giorno.
Ed io giù a ridere.
“ Angiulen sa dit?” Bisbigliavo e correvo in casa dalla nonna Andrica.
“Stupài, salutami la nonna”
“Va ban, Angiulèn…”
Ero una bimbetta, di cinque o sei anni quando Angiolino ne contava già più di settanta, sulle sue spalle Era uno degli anziani del paese e tutti gli portavamo rispetto. Erano sacri gli anziani. Memorie viventi di un linguaggio e di una vita che aveva permesso al futuro di divenire passato e futuro di nuovo. Insomma, era grazie a loro se tutto esisteva. E tutti ne eravamo consapevoli, allora.
La mia infanzia la trascorsi con loro. Abitanti di un presepe pagano. Persone intrise di cultura antica. Quella della terra, quella delle lune, dei saggi proverbi. Loro erano quelli che ancora scherzavano col divino, senza temerlo, e quando si facevano il segno della croce non era per paura di una sua vendetta, ma per dirgli “Dai, non te la prendere!”. Se avessero potuto gli avrebbero dato una pacca sulla spalla.
Gli anziani, mia nonna in testa, essendo tra le due più anziane del paese, erano i vocabolari viventi di un linguaggio non scritto, che ai miei orecchi di fanciulla, risuonava come una simpatica melodia colorata . Quando la nonna mi narrava le fòle, prima le raccontava in dialetto poi le traduceva in “dotto”, come lei definiva l’italiano. Ma come riusciva a trascinarmi nel mondo incantato la narrazione dialettale quella “dotta” non ci riusciva.
“A iera n’a volta una principassa…” E così via…
Ed io volavo sulle note di quella melodia.
La principassa , al prensip ,in dialetto,suonavano, per me, come i nomi di due personaggi della storia e non due titoli nobiliari.
Al dreg non era che un animalone “tutto fuoco e niente arrosto”, visto che non riusciva mai ad arrostire nessuno.
Ed io, poi, mi divertivo a cambiare la trama.
Al prensip al gniva picè dalla principassa che sl era innamure dal dreg.
Insomma, una principassa animalesta, come diremmo ora.
Tradotta in italiano la stessa storia, per me, prendeva un’altra forma, un altro significato. Diventava più dura, più sgarbata. Si avvicinava molto alla realtà e non mi piaceva. Quando incominciai ad andare a scuola iniziò il calvario. Spesso , davanti alla classe e alla maestra slegavo in dialetto. Per me era normale, era la lingua di mio padre, dei miei nonni, dei miei vecchi amici,era il mio bagaglio culturale.
La maestra non la pensava allo stesso modo.
Una mattina, durante l’ora di lezione l’insegnante decise, come al solito, di interrogarmi. Avevo sette o forse otto anni. Non ricordo, ricordo solo che ero già ribelle. Ricordo solo che la maestra mi aveva davvero rotto coi suoi continui rimproveri sul mio modo di esprimermi. Mi umiliava davanti a tutti chiamandomi “asina”ed io ormai mi sentivo colma. Colma delle lacrime che ero sempre riuscita a trattenere. Andai alla lavagna e lei incominciò a dettare.
“ Il cavallo corre nel prato. Annusa i fiorellini e beve l’acqua del ruscello”
Mentre dettava teneva lo sguardo fisso alla classe, per impedire suggerimenti. I miei compagni iniziarono a sghignazzare rumorosamente. Lei si girò e….
“Al caval al corr in dal pret. L’annusa i fiurlen e al bav l’acqua dal ruscel”
Avevo tradotto, scrivendo, l’italiano in dialetto. In realtà non sapevo se avevo scritto nel modo giusto. Avevo seguito la musica colorata della lingua del mio cuore.
La maestra arrossì, scattò sull’attenti come un gerarca fascista, con le mascelle serrate e la faccia di granito
“Menzani, vergognati!- Ci chiamava col cognome, non ho mai capito perchè- che hai scritto? Chi vuoi prendere in giro? Quella è la lingua degli ignoranti! E tu sei un’asina! Una contadina! Finirai a lavorare la terra. Gente come te di più non può fare! Vai a posto, maleducata!”
Ero una bimbetta ma ricordo tutto. Il suo sguardo glaciale, le risa dei miei compagni, il loro coro che mi accompagnò per molto tempo, lungo la strada della vita
“Asina! Asina!”
Ma che avevo fatto di male? Perchè ero stata maleducata?
La mia nonna parlava quella lingua, Angiolino, il mio papà…e non erano persone maleducate ne tanto meno ignoranti. Ma poi, essere ignoranti era una cosa di cui vergognarsi?
Purtroppo il bisogno di sentirmi accettata prevalse. Rifiutai il dialetto, la bella lingua antica dei miei antenati ed incominciai a parlare, a leggere e a scrivere in “dotto”.
Purtroppo per me, la previsione della maestra su un mio sicuro lavoro da contadina fallì. Magari avessi imparato ad ascoltare la terra, la luna ed il vento, come sapevano fare i vecchi di Tolè. Avrei sicuramente avuto una vita più libera, più vera.
Ignorante divenne uno dei miei complimenti preferiti. L’ignorante è come il vaso vuoto, lo puoi riempire ed esso può contenere. Colui che si professa colto è come un vaso rotto. Puoi riempirlo all’infinito, ma non sarà mai pieno.
Se qualcuno mi da dell’asina, io sono felice.
Gli asini sono animali splendidi. Forti, testardi, dignitosi, come gli abitanti del presepe pagano che allietarono la mia fanciullezza. La lingua degli ignoranti la sto rispolverando ora, che mio padre, l’ultima radice che mi apparteneva e che mi legava a quel mondo, è morto.
E quando la primavera fa tremare la terra coi suoi peti sinistri, penso, e a volte dico ad alta voce
“Dio aià magnè i fasùl…sant mò com al scurazza!..”
Da brava atea non mi faccio il segno della croce, ma strizzo l’occhio ad Angiulèn, che alla battuta ride con me, a crepapelle, proprio come allora.
Il tramonto dei due padri
Il sole sta per tramontare, ed io ho smarrito la via dl ritorno, Stupida Alice del ventunesimo secolo, ho inseguito il bianco unicorno, e ora che ho smarrito anche lui mi ritrovo sola, nell’abbraccio di questo castagneto, dove mio padre giocò bambino. Nel cielo la notte già scopre i suoi seni, immensi, avvolgenti e tutto piano si trasforma.
Alla luce della tenebra tutti diveniamo un unico corpo senza forma, fatto di suoni, odori, sensazioni. La sposa di Morfeo non si è adornata i seni coi ciondoli di luna e di stelle, lasciandoli nudi e freddi. La voce del rivo monotona e amara echeggia come un canto funebre. E’ inverno, e Demetra cerca disperata l’amata Proserpina. La sento gemere tra i rami neri, nel brontolio cupo degli uccelli notturni, in tutta la natura su cui ella ha gettato il suo sudario di dolore. Annaspo, nuotando nell’ignoto, sento la paura gelarmi le mascelle che non riesco a chiudere totalmente, se qualcuno vedesse la mia faccia ora penserebbe di essere entrato, per magia, in un quadro di Munch.
Eppure poco lontano c’è lui, lo sento, come quand’ero bambina e seguivo, con gli occhi chiusi, la sua voce, fino ad arrivargli addosso e abbracciarlo stretto, stretto per rigenerarmi della sua immensa forza vitale.
-” Eccoti, sei tu, ti riconosco – sussurro, tastando palmo a palmo la sua corteccia. Poi le mie mani gelate arrivano al grande squarcio che divide il grande castagno in due, dalle radici fino a metà tronco – Siii, la porta magica!- esclamo – Ciao amico, è bello rivederti-” “ Ciao, ti sei persa di nuovo – risuona la sua voce calda, come il fuoco buono del focolare – Entra e riparati tra le mie braccia. Ti proteggerò dal pianto di ghiaccio della Dea. Nevicherà, questa notte-”
Entro, come facevo da bambina, con la mia gemellina, quante risate! Eravamo ignare che il dolore a cui nostra madre ci sottoponeva ci avrebbe allontanate l’una dall’altra, rendendoci due estranee. Mi accovaccio dentro a quel corpo secolare e mi stringo nel mio lungo cappotto nero.
“ Ascoltami ora- continua con la sua voce saggia- noi trascorriamo veloci nel tempo, ed io sono al traguardo, tu, noto con piacere che mi puoi ancora udire e quindi a te dirò le cose che ho visto e sentito, parlane, ti prego, affinché tutta questa mia vita non sia stata vana.- Ho visto amanti giurarsi amore eterno, ho visto uomini uccidere altri uomini. Al più grosso dei miei rami impiccarono una ragazzetta, dicevano che aiutava la resistenza, che portava messaggi al nemico. I suoi assassini indossavano camicie nere e avevano sguardi duri, ma io sentivo i loro cuori e ti assicuro che non erano all’altezza di quello della poverina che spirò, coraggiosa, tra le mie braccia. Ultimamente è ritornata, piange e geme, vagando per i boschi, anima in pena, in cerca di qualcuno che l’ascolti, dice:”- Stanno uccidendo di nuovo Nostra Libertà, e noi, che per essa morimmo non riposiamo più in pace.”-
Tutti i giorni sento la Terra ansimare di dolore sotto i colpi mortali degli uomini, grida: “ figli uccidendomi ucciderete i vostri figli”- Ma sono urla mute ad orecchi sordi. Voi umani temete il buio della notte, genitrice dei sogni, sorella della morte, ma immensamente di più dovreste temere il buio dell’ignoranza, genitrice delle ingiustizie, sorella della violenza.
Imparate a conoscere, a capire. Avvicinate il lupo, che vi pare ostile e nemico e capirete che è solo un essere vivente tra altri viventi e che, come voi vuole solo vivere….Ti stai addormentando, sei stanca. I seni della notte stillano morfina e allattano il giorno che verrà…Dormi – mi culla la sua voce di padre premuroso – dormi bambina mia, l’alba è vicina.”
Al mio risveglio l’aurora, sposa virginale e pudica, aveva vestito i seni della notte e le forme della terra d’un manto di bianca innocenza: nevicava. Ero al caldo del mio piumone, circondata dalla mia famiglia, due cani e una gatta. Il forte papà di legno che mi parlava quand’ero bambina è stato abbattuto in autunno, era vecchio e malato. Al suo posto pianteranno alberi giovani e sani.
Pochi mesi dopo, i primi di gennaio, anche mio padre, antico castagno di carne, è morto. Era vecchio e malato. E nel suo ultimo respiro i vagiti di altre creature intonavano l’eterno canto della Vita.
Schegge d’eternità
– Canticchiando ci strappò dalla Madre Terra, quella mano artigliò i nostri steli e ci portò via di là. Lasciandoci senza respiro.
Chi tra i visitatori che ammiravano i quadri di Emanuela aveva parlato? Mi guardai attorno e notai come tutti fossero attenti, immobili come dipinti, ad osservare quelle pareti su cui acquarelli leggeri parevano respirare e muoversi come creature. Eppure il suono di quelle vocine continuava ad arrivare alle mie orecchie come brezza cristallina e profumata. D’un tratto mi parve di essere un fiore ondeggiante sullo stelo, poi guardando dritto, davanti a me vidi quel quadro e capii:
– Siete voi che parlate? – chiesi con la voce del cuore.
– Si, si! – risposero in un coro tintinnante i bei crisantemi, immortalati dentro il vasetto di vetro, su quel foglio da cui parevano sorridermi.
– Se volete che vi ascolti, non parlate tutti assieme, per favore – li pregai – altrimenti non riesco a seguirvi.
– Parla tu, che sei un poeta!! – ridacchiò uno dei fiori che colpendo leggermente col capolino un compagno lo fece fremere d’emozione.
– Va bene – rispose il prescelto.
E incominciò a narrare.
Abitammo un giardino con cespugli di lavanda e violette civettuole. Con noi c’erano un ciliegio, che sia l’inverno che la primavera imbiancavano, ed un salice piangente, che a dispetto del nome e dell’aspetto sconsolato, scherzava con tutti, ma sopratutto con la sinuosa gatta nera dagli occhi smeraldini, che amava solleticarlo con gli artigli appuntiti, suscitando in lui risatine di piacere. Il ricordo ancora ci rallegra.
L’aurora ci baciò con le labbra rosa e umide, le cui goccioline dissetarono uccelli ed insetti. Il merlo ci confidò che fu la notte a dipingerlo, ma mentre lo dipingeva si addormentò, lasciandolo così senza becco. Esso invano cercò, fischiando le più belle melodie, di destare l’oscura pittrice, ma senza becco il suo canto era muto. Fu il sole, al mattino, ad avere pena di quell’esserino incompleto e con un colpo di raggio gli donò ciò che gli mancava. Da quel dì i merli sono vestiti dei colori della notte e del giorno e non hanno mai smesso di fischiare fantastiche armonie. Questo sosteneva il pennuto cantastorie.
– Tu, amica mia credi alle parole del merlo? Io no, ma mi piace crederci….
Poi continuò l’affascinante narratore.
Svenimmo nell’abbraccio ronzante di api e farfalle, che, riconoscenti per il nettare che concedevamo loro ,ebbre d’amore, ci ubriacavano di complimenti. La pioggia irrorò le nostre radici di vita e l’argentèa luna ci svelò che, in paesi molto lontani, fiori come noi vengono usati da spose simili a bamboline di ceramica, per ornare i loro matrimoni, mentre nel paese dove nascemmo, con noi ornano letti di legno dove giacciono persone addormentate, che poi vengono ricoperte di terra. E noi tremavamo increduli a quelle parole, socchiudendo emozionati i petali
Poi un giorno, quella mano ci portò via da tutta quella vita, per rinchiuderci in un luogo senza cielo né terra, immerse i nostri steli in un minuscolo vasetto pieno d’acqua che pose accanto a due porte trasparenti, da cui potevamo vedere i nostri amici … ma non potevamo sentirli. Due interminabili giorni in cui la percezione della nostra energia e della nostra bellezza che svanivano erano le uniche emozioni che ci facevano sentire vivi.
Prima che appassissimo travolti dall’alito putre di Thanatos, la stessa mano che ci diede la morte, impugnò un pennello e su di un foglio ci donò l’eternità. Erimanemmo per sempre giovani e belli noi ché giovani e belli morimmo…..
Tornai in me, era tardi, i visitatori già fluivano verso l’uscita, anch’io andai fuori. Guardai il cielo dove il tramonto aveva acceso un falò, e ad un tratto tornai ai cari crisantemi, ero andata via senza salutarli. Li salutai col pensiero e loro contraccambiarono chiedendomi di dirvi che essi attendono ansiosi i vostri occhi ammirare la loro giovane bellezza senza fine….
Borderline in personalità istrionica a tratti psicotici
“Bordeline in personalità istrionica a tratti psicotici”. Questo è il nome della malattia che mi affligge da tanti anni, così la chiamano gli psichiatri.
Non ci sono lastre che la fotografino (come per tutte le patologie psichiche, d’altronde); non è un ammasso tumorale o un’infezione causata da qualche strano virus e tutto questo era per me diventata un’ulteriore sofferenza.
Nella società dell’immagine tutto deve essere manifestato attraverso una forma fisica, e i miei genitori mi chiedevano insistentemente: Cosa significa “sto male dentro”?Non sembri malata, ma poi dentro dove? Cosa –? Il fatto di non poter mostrare nulle di visibile mi distruggeva, mi creava ulteriori sensi di colpa; quindi ad un certo punto ho deciso che io stessa sarei diventata “la macchina fotografica” del mio dolore.
L’ho guardato e l’ho visto: all’interno del mio corpo materiale, un’altra me più piccola, più minuta, fatta da una membrana bianca, sottile, ricoperta da cicatrici di diverse dimensioni, alcune sono veri e propri strappi sanguinanti, altre solo tagli ormai cicatrizzati, altri ancora stanno a metà tra chiudersi e sanguinare, pronti a riaprirsi al minimo urto, per lanciare il loro grido di disperazione.
Ho mostrato tutto questo attraverso la mia parola a mio padre e alle mie sorelle, cercando di essere il più chiara possibile, proprio come quando si fa un identikit di una persona vista solo da noi e alla fine i nostri interlocutori se ne vanno soddisfatti, con l’immagine di quella persona o quella cosa ben stampata nella mente, come se ad averla vista fossero stati proprio i loro occhi. Le mie lastre le avevo viste solo io ma ero stata perfettamente in grado di condividerle con altri.
Da quel giorno non misero più in discussione l’esistenza della malattia invisibile, ma le domande si trasformarono in “Come stai? Stai meglio?” e questo mi tranquillizza tantissimo. Almeno non dovevo più preoccuparmi di dimostrare fisicamente il mio dolore attraverso gesti estremi come tagliarmi le mani con coltelli affilati o tentare il suicidio.
Però una parte importante della sofferenza rimane, è quella legata ai traumi della mia infanzia, al ricordo sempre vivo e presente di una madre alcolista e malata, violenta al punto di torturare, letteralmente, la mia sorella gemella. Torture che ha subito, dal punto di vista fisico, fino a 10-11 anni, e da quello psicologico fino a quando, a 21 anni, decise di sposarsi in fretta e furia per scappare da quell’inferno.
Ma io, io che rimasi a supplicare, a mendicare l’amore di quella madre che ci aveva partorite e poi abortite miseramente, ho pagato forse il prezzo più alto. Il piacere unito al senso di colpa che provavo da bambina per non essere io la vittima prescelta mi perseguita ancora.
Quando la mia malattia è in fase acuta, ecco tornare mia madre, lì davanti a me con la bava alla bocca che affonda le unghie nella carne tenera della mia sorellina, che si arrossa, si lacera, sanguina. E’ atroce la sensazione del sangue misto a muco e orina, perché mia sorella spesso orinava, penso per la paura; non è una visione, mi sento tutti quei liquidi addosso. Sento quegli odori acri e non riesco a correre sotto la doccia per lavarmeli via, anzi, è fortissima la decisione di lasciarli lì, sul mio corpo che fa fatica a muoversi.
E’ sempre la stessa scena, l’unica che ricordo del mio passato, mia madre solleva mia sorella per i capelli e sbatte la testolina contro il muro più volte, e quei tonfi sordi e le sue suppliche entrano nel mio cranio tanto che la voglia di sbattere la mia testa contro il muro è incontrollabile. Solo una voce dolcissima che ad un tratto interviene a tranquillizzarmi mi trattiene.
Quella voce non so di chi sia, non si è mai presentata, è femminile, e più di una volta è riuscita a salvarmi.
E’ lei che mi ha fatto notare che attraverso tante sofferenze io sono arrivata a percepire il tutto. Il senso di colpa mi ha costretta a prendermi addosso tutta la sofferenza di mia sorella fino ad annientare le mie difese. I confini del mio corpo sono stati abbattuti. Spesso io vivo nel tutto, ma non come parte: io divento il nulla. Sono l’albero, l’animale,il cielo, l’erba, l’altro umano, sono la terra, l’acqua e il drago che la abita, sono gli spiriti che popolano la natura, la luce ma anche il buio. Sono la gioia e il dolore.
Questo mi fa star bene, anche la sofferenza, perché fino a che sono la sofferenza del tutto ho la certezza di non essere la causa di quel dolore.
Quello che mi fa stare veramente male è il costringermi a stare a tutti i costi nella dimensione “reale”, dove i confini sono stretti, dove spesso per esistere come individuo devi causare male ad un altro essere vivente, o almeno devi allontanare il più possibile da te le voci dell’universo. Questo mondo a misura di lupi affamati e di ovini belanti mi distrugge, e il suo volere tutti uguali nel modo di essere e di vivere ha fatto di me una malata mentale.
A volte penso che i veri malati siano loro, quelli che non vedono più in là del loro naso, che non hanno mai sentito la voce dell’albero, visto l’ombra del drago a pelo nell’acqua di un fiume, del mare, che non hanno mai udito le grida di dolore di un diamante, di una pelliccia che grondano sangue di tanti indifesi. Quelli che riescono, quando va bene, a sentire solo la propria, di voci. Non so se siano più sani di me. Sicuramente avere così netti i confini fisici, ma anche quelli dettati dalla morale e dalle leggi comuni li rende più forti, meno attaccabili, ma non più liberi di me. Di sicuro meno sofferenti.
Comunque io penso di essere una singolare Alice, che per arrivare al mondo delle meraviglie è stata costretta – e lo è ancora – a camminare nel mondo degli inferi e delle brutture. La voce buona spesso mi dice che quello è uno dei prezzi da pagare per vedere un po’ più da vicino l’anima della Grande Madre.
Primavera
Piange il ciliegio petali di neve
su questa terra che germoglia ancora.
Scorgo il tuo sguardo che mi fissa greve
e mi perfora.
Tanto il dolòr sapèr che dal tuo seme
nacque una figlia dalla mente matta.
Trema il tuo labbro e ancòr la voce gème
per questa blatta.
Per te non fui che scarafaggio nero,
mentre per me tu fosti il vero Amore,
quello che nutre tutto il mondo intero.
Tu eri il sole!
Quel sole si oscurò, gelido e lesto,
portandomi nel regno dell’inverno,
ed io finii troppo, troppo presto
nel tuo inferno.
Davanti alla tua bara ho rivisto il sole…
…Quanta tristezza, profonda ed infinita
riavèr dalla morte del mio primo Amore
la mia vita!…
… Piange il ciliegio petali di neve
su questa terra che germoglia ancora
e dal tuo corpo che è ormai cenere lieve,
padre,
rinasco ora!
- Caro, di quest’amore non temo la morte, ma la non vita. Non voglio guardarlo mentre, agonizzante, annaspa nell’acqua putre dei ricordi. Se mi accorgessi di questo, io stessa praticherei l’eutanasia a questo mio Amato Amore. Ti rispetto troppo per fingere di Amarti. Preferisco un tramonto seguito da un’oscura notte ad un giorno eternamente grigio e senza vita!…
Lettera a Babbo Natale
Caro Babbo,
sono anni e anni che non ti scrivo, solo ora ho trovato di nuovo l’ispirazione e non lo faccio per chiederti dei doni, ma per parlarti di ciò che io vorrei donarti.
E’ da quando sono bambina che ti aspetto al caldo del mio letto e tu mi hai sempre dato buca.
Solo ora, a quaranta e più anni suonati, trovo il coraggio di confessarti i pensieri di quella fanciulla che ti attendeva tremante e timida, del rossore che colorava le sue gote, del fuoco che infiammava il suo ventre, dei sogni d’innocente peccato che inebriavano la sua testolina…
Respirava piano, voleva sentire solo il candido rumore della neve e con gli occhi chiusi attendeva la tua calda presenza. Le manine strette fra le cosce, muoveva piano il bacino avanti e indietro, pensando al tuo volto rubicondo,alla tua nivèa barba , e ad un tratto le sue manine diventavano la tua barba, il tuo rossore l’immenso piacere che dai piedini la possedeva, inebriandola totalmente. Sentiva la forza delle tue braccia avvolgerla con dolcezza, odoravi di conosciuto e di amore, il tuo corpo la riempiva, facendola fremere e tremare e sudare, la schiacciava contro le lenzuola calde e bagnate, ma quella sensazione di sfondamento, di netta sottomissione moltiplicava il suo piacere portandola quasi allo svenimento.
Ma prima di svenire riusciva ad aprire gli occhi, che fino ad allora aveva tenuto ben serrati, e vedeva i tuoi: immensi, lucidi, nocciola, due gocce di legno di castagno, profondi come il dolore, forti come la rabbia…erano gli occhi di suo padre.
Il senso di colpa la svegliava improvvisamente dal sogno, sono stata una bimba cattiva- pensava- non verrà neanche questa volta a portarmi i regali che gli ho chiesto, non me li merito- e si addormentava cullata dal tormento e dal piacere.
Quella bambina è cresciuta, quella bambina sono io. A quarantatre anni ho capito che il babbo che attendevo spasmodicamente nel mio letto non eri tu: Tu sei la rappresentazione di tutti i padri della terra: se sei buona ti gratifico coi doni, se sei una bimba cattiva ti punisco scordandomi di te…e mio padre di me si ricordava solo quando potevo essergli utile..
… Caro Babbo (Natale), questo è il mio regalo per te, a te che sei stato il mio primo sogno erotico, dono il piacere puro d’una bambina. Ora ti saluto, sperando che questo 25 dicembre tu vorrai venire, al caldo nel mio letto. Non voglio premi, non voglio strenne, porta solo te stesso…
Baci.
LaMOre