
“Mio padre era un guaritore, voi qua lo chiamate lo sciamano…” inizia così il racconto di Faustin Ackafac, immigrato diversi anni fa in Italia dal Senegal, ai microfoni di Psicoradio. Le sue parole ci fanno riflettere su quanti siano i modi di concepire la malattia e la cura nel mondo.
Cosa può fare uno psichiatra o uno psicoterapeuta occidentale quando si trova di fronte a persone che stanno male ma che provengono da culture molto diverse? Per rispondere a questa domanda usiamo le parole dello psicoterapeuta e neuropsichiatra Piero Coppo che dice che oggi non è più possibile applicare il protocollo ereditato dall’Ottocento e dal Novecento: è necessario trovare un metodo pratico e l’etnopsichiatria è la prima scienza coerente con cui ci si può rapportare in modo corretto al grande fenomeno delle migrazioni.
L’etnopsichiatria studia i disturbi psichici tenendo conto del gruppo etnico e del contesto culturale in cui si manifestano. In particolare l’etnopsichiatria mette in risalto il fatto che alcuni disturbi sono strettamente collegati all’ambiente culturale in cui sono insorti e non sono riconducibili a categorie psichiatriche riconosciute universalmente.
Già dagli anni Cinquanta del Novecento vengono messi in atto i primi tentativi di coniugare metodi che riconoscono il valore di pazienti diversi senza negarli ed annullarli.
Spiega l’etnopsichiatra Roberto Maisto che “occorre uscire dall’onnipotenza del pensiero occidentale. La nostra psichiatria è un’etnopsichiatria come le altre. Per citare un famoso etnopsicanalista, Tobie Nathan, “Non siamo soli al mondo”: l’etnocentrismo è un atto di superbia.”