Da molti anni Psicoradio combatte una battaglia contro i pregiudizi sulla salute mentale che il linguaggio e la comunicazione contribuiscono a diffondere.
Le persone che hanno un disturbo psichico sanno per esperienza diretta cosa è lo stigma, anche quelli che non conoscono questa parola. Sanno cosa vuol dire essere guardati con sospetto, evitati; sanno cosa significa vergognarsi nel parlare di una sofferenza, di una diagnosi, e di quanti pregiudizi si nutra l’immaginario di chi giudica senza conoscere.
Cosa c’entra con il Coronavirus? C’entra. Un recente documento dell’Organizzazione mondiale della sanità denuncia il pericolo dello stigma sociale nei confronti di chi è sospettato di avere il COVID-19. Attorno a questa nuova epidemia si moltiplicano comportamenti discriminatori, per esempio nei confronti di persone che appartengono ad alcune etnie, o che provengono da alcune regioni… Trump ha parlato pochi giorni fa di “virus cinese”, e nella educata Svizzera su alcune auto con targhe italiane sono stati attaccati cartelli di insulti.
Il rischio è che ciò produca non solo l’isolamento di persone o gruppi, ma anche – come succede per i disturbi psichici – che le persone nascondano sintomi, non cerchino immediatamente assistenza sanitaria per paura di venire viste come “untori”.
E così come succede per i disturbi psichici, il modo con cui si parla di COVID-19 è fondamentale per riuscire a combattere la malattia e per non alimentare paura ed esclusione.
Il linguaggio deve essere rispettoso, preciso ma “accogliente”. Quando si parla di coronavirus, alcune espressioni (per esempio, “caso sospetto”) possono avere un significato negativo per i malati, le loro famiglie, alcune comunità; possono creare una paura diffusa e “disumanizzare” le persone colpite dalla malattia. Al contrario, la storia mostra esempi concreti di come l’uso di un linguaggio meno stigmatizzante abbia contribuito a controllare epidemie e pandemie: è successo nel caso dell’HIV, o della tubercolosi.
Per questo l’OMS ha dato suggerimenti su come parlare di COVID-19. Eccone alcuni. Si tratta di usare una comunicazione che non alimenti il panico e che non ferisca le persone. Chi parla o scrive sui social, e i mezzi di comunicazione in generale dovrebbero tenerne conto. E in molti casi i criteri sono simili a quelli da osservare quando si parla di salute mentale.
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LE PAROLE CONTANO
COSA FARE E COSA NON FARE QUANDO SI PARLA DEL NUOVO CORONAVIRUS (COVID- 19)
-Soprattutto per i social e in generale i mezzi di comunicazione!
COSA FARE – Parlare della situazione anche in modo positivo, di chi guarisce, dell’efficacia delle misure di prevenzione. Per la maggior parte delle persone questa è una malattia dalla quale si guarisce. Ci sono semplici passi che tutti possiamo fare per mettere al sicuro noi stessi, i nostri cari e i più vulnerabili.
COSA NON FARE – Enfatizzare solo e soprattutto le notizie negative e i messaggi minacciosi. Il timore è utile, il panico può produrre risposte irrazionali. Bisogna aiutare a proteggere le persone più vulnerabili.
COSA FARE – Parlare in modo accurato del rischio derivante da COVID-19, sulla base di dati scientifici e delle più recenti raccomandazioni fornite dalle istituzioni
COSA NON FARE – Usare un linguaggio iperbolico che genera estrema paura, con parole come “peste”, “guerra mondiale”, “apocalisse”, ecc. E non bisogna ripetere e diffondere voci non confermate, diffuse da social di dubbia attendibilità.
COSA FARE – parlare di persone che “hanno preso” o “hanno contratto” il COVID-19.
COSA NON FARE – Parlare di persone che “trasmettono COVID-19”, “infettano gli altri” o “diffondono il virus” poiché questo linguaggio indicano un “colpevole”. L’uso di questi termini crea l’impressione che chi ha la malattia abbia in qualche modo fatto qualcosa di sbagliato (o sia meno umano di noi); così si mina l’empatia verso un altro essere umano; potenzialmente si alimenta la riluttanza a sottoporsi a test e quarantena.
COSA FARE – Parlare di “persone che hanno COVID-19″, “persone che sono in cura per COVID-19”.
COSA NON FARE – Riferirsi a persone con la malattia come “casi COVID-19” o “vittime”.
COSA FARE – Parlare di “persone che potrebbero avere COVID-19” o “persone che si presume abbiano il COVID-19”
COSA NON FARE – Parlare di “sospetti COVID-19” o di “casi sospetti”.
COSA FARE – Parlare semplicemente della nuova malattia da coronavirus (COVID-19)
COSA NON FARE – Associare luoghi o etnie alla malattia. Questo non è un “virus di Wuhan”, un “virus cinese” o un “virus asiatico”.
Non è il caso di pensare che si tratti discorsi superflui, di lussi in un momento molto duro. Le parole sono importanti, quando si tratta di Covid-19 o di salute mentale. Le parole possono definire in modo negativo o solidale le persone. E il rischio che si corre è che le persone non si facciano curare subito, aumentano sofferenza, e aumentando i rischi.
Per approfondire:
Social Stigma associated with COVID-19
In italiano:
Stigma sociale associato a COVID-19
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